
«Tranquillo… oggi la Roma lo vince, lo scudetto…»
Domenica 17 giugno 2001, ore 9.00 del mattino, circa.
Io e un amico dell’epoca (con cui mi persi di vista qualche anno dopo la maturità), lasciavamo casa di un nostro compagno di classe.
Eravamo rimasti a dormire lì dopo una sbronza colossale, in quel dei castelli.
Ovviamente non avevamo bevuto chissà che cosa, ma a 18 anni bastano un paio di romanelle a stomaco vuoto per farti ridere di qualsiasi cosa. Quel che non sapete, è che l’amico con cui ebbi lo scambio di battute in apertura del post, era (ed è) un feroce lazialotto… potete dunque immaginare con quale gioia pronunciava quelle parole.
Eppure, in quella mattinata assolata, avevo bisogno di certezze. Di qualcuno che mi dicesse che sarebbe andato tutto bene, che stavolta ce l’avremmo fatta noi. Sì noi, quelli della Roma. Ironia della sorte, il mio unico interlocutore in quel momento era un laziale depresso. Anche l’altro amico, quello che ci aveva ospitato, era piuttosto tranquillo: la Magica sarebbe diventata campione d’Italia.
Beati loro, che avevano queste certezze. Io dopo il pareggio di Napoli avevo iniziato a vedere i soliti fantasmi, quelli che ti strappano lo scudetto all’ultimo respiro… d’altra parte, la storia della Roma è piena di eventi del genere. Arrivi a un passo dal traguardo e inciampi sulla più classica delle bucce di banana. Applausi, grazie lo stesso, bandiere ammainate e testa china fino a casa, orgogliosi per il bel campionato ma beffati come sempre.
Eppure stavolta non poteva andare nuovamente così… no.
Indosso il casco, salgo su quel macinino che avevo al posto del motorino e mi dirigo verso casa. La mattinata era caldissima, per Roma non volava una foglia. Stavamo tutti aspettando le 15… e nel frattempo, tra curve e semafori, continuavo a pensare, a rimuginare sul fato giallorosso.
Stavolta non potevamo sbagliare, dovevamo strappare lo scudetto dalle maglie dei laziali, dovevamo vincere noi. Perché dopo anni e anni di umiliazioni, ce lo meritavamo.
Ennesimo semaforo. Che palle.
Mi distraggo un attimo per controllare l’ora, quando all’improvviso accade quello che non ti aspetti, nel giorno che più aspetti: mi passa davanti il pullman della Roma.
Il cuore batte all’impazzata, intravedo Capello, Totti e Cafu. Intravedo la squadra che alle 15 potrebbe avverare tutti i nostri sogni. Decido d’interpretarlo come un segno divino, l’adrenalina sale, arrivo a casa carico a mille.
Seguo tutte le trasmissioni pre-partita, leggo, controllo il televideo, mangio distrattamente, mando un paio di messaggi, mi fisso davanti al televisore. Ci siamo. Sono le 14.55. Le immagini che arrivano dall’Olimpico fanno venire la pelle d’oca, quel mare di bandiere sgombra anche gli ultimi dubbi… oggi ce la facciamo, vinciamo noi. Ma sì, basta scaramanzie, è tempo di trionfare… Apre il Capitano, conferma Top Gun, mette il timbro il Re Leone.
Dicono che abbia segnato anche Di Vaio, ma non se n’è accorto nessuno, forse nemmeno lui.
Da lì in poi, i ricordi sono confusi, ricordo la corsa in motorino verso il Circo Massimo, le bandiere, i sorrisi, i clacson, le trombette, i cori. Ricordo lo sguardo della gente, illuminato da una gioia attesa per ben 18 anni. Ricordo le lacrime al concerto di Venditti, la perdita totale della voce nel cantare Grazie Roma, la sensazione che le porte del paradiso si fossero spalancate per noi.
Solo chi è Romanista potrà comprendere queste righe, quell’emozione. Probabilmente in nessun altro posto del mondo le avremmo vissute… ed è per questo che non vediamo l’ora che possa riaccadere. Di piangere, sì. Per la vittoria più bella, per la Roma.
Ancora una volta.
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